Ad oggi si può pacificamente affermare, grazie alle rilevazioni di agenzie e organizzazioni internazionali, che nel mondo esistono più di 80 milioni, a metà 2020, di sfollamenti forzati e che il numero dei rifugiati abbia superato i 26,3 milioni, mentre sono circa 45,7 milioni i profughi presenti all’interno dei confini dei propri paesi (internally displaced person). In tale categoria non vengono annoverati i rifugiati ambientali, ossia le vittime di catastrofi naturali, che oggi raggiungono quasi i 25 milioni.
Sono profughi ambientali-climatici coloro che sono stati costretti a lasciare le proprie terre a causa della erosione dei suoli e delle coste, della siccità estrema, dell’innalzamento dell’evento del mare, di eventi estremi ed anche delle innumerevoli devastazioni ambientali causate da grandi multinazionali. Quest’ultimo caso, risulta purtroppo in crescita esponenziale in quanto il numero di casi di versamenti di petrolio o di sostanze chimiche in fiumi o mari è in aumento e ciò pregiudica habitat e popolazione. Al contempo anche la deforestazione dei boschi e la desertificazione costituiscono altre cause di movimento forzato di intere comunità, alla ricerca di luoghi abitabili all’interno o esterno dei propri confini.
Le previsioni dell’Organizzazione internazionale per le migrazioni delle Nazioni Unite sono a dir poco allarmanti, perchè ipotizzano che entro il 2050 potrebbero esserci tra i 25 milioni e 1 miliardo di migranti ambientali, che si spostano all’interno dei loro paesi (internally displaced person “IDP”) o attraverso i confini.
Nonostante tali fenomeni migratori siano largamente diffusi già adesso, non vi è ancora definizione univoca di « profugo/emigrato ambientale ».
La International Organization for Migration ricorre alla seguente definizione: « Environmental migrants are persons or groups of persons who, for reasons of sudden or progressive changes in the environment that adversely affect their lives or living conditions, are obliged to have to leave their habitual homes, or choose to do so, either temporarily or permanently, and who move either within their territory or abroad ».
Altra definizione che si incontra correntemente è quella di « environmental refugee » utilizzata per la prima volta nel 1985 da Essam El Hinnawi: « Those people who have been forced to leave their traditional habitat, temporarily or permanenty, because of a marked environmental disruption (natural and/or friggere by people) that jeopardize their existence and/or seriously affected the quality of their life ».
Alla frammentarietà di definizioni corrisponde il mancato riconoscimento giuridico della condizione di rifugiato ambientale. I rifugiati ambientali non sono infatti contemplati nella Convenzione di Ginevra del 1951, il cui articolo 1 opera riferimento alla necessità di tutela di chi si trovi al di fuori dei confini del proprio Stato e non possa farvi ritorno per timore di persecuzioni di tipo razziale, religioso, di cittadinanza o appartenenza a un gruppo sociale, nonché per espressioni di convinzioni politiche.
Spesso, come motivi ostativi alla applicabilità della tutela internazionale stabilita dalla Convenzione di Ginevra ai rifugiati ambientali, si adduce che:
– i soggetti interessati si muovono quasi sempre e quasi esclusivamente entro i confini del medesimo Stato;
– non sono individualmente oggetto di persecuzione e esiste la teorica possibilità di recuperare il territorio oggetto di devastazione, così consentendo il ritorno a casa dei rifugiati (la condizione è, cioè, temporanea).
Nelle more della ricerca di una soluzione internazionalmente condivisa, a tali masse di persone si applicano i Guiding Principles in Internal Displacement elaborati nel 1990 dallo UNHCR, nei quali è operato quanto meno un riferimento al “disastro naturale” quale elemento determinante a causare l’abbandono dei territori: « persons forces or oblie to flee or leave their homes or places of habitual residence for any array or reasons, such as conflict and civil strife as well as natural disaster ».
Non si tratta tuttavia di principi vincolanti, ma di mere indicazioni di modalità operative per fare fronte ad un problema che non sempre e non necessariamente rimane limitato all’interno dei confini, e ciò rende ancora più urgente la risposta della comunità internazionale.
Quanto appena descritto è stato recepito sia dalla normativa comunitaria con Direttiva 2004/83/CE del Consiglio del 29 aprile 2004, sia dalla normativa nazionale italiana con il D. lgs. 19 novembre 2007, n. 251.
Come se non bastasse, anche la giurisprudenza internazionale trova difficoltà ad affermare e riconoscere in via interpretativa lo status di rifugiato ambientale, ciononostante è riuscita ad affermare in alcuni casi principi di grande rilevanza. Si fa riferimento al ricorso promosso da Ioane Teitiota (caso n. 2727/2016, decisione del 24 ottobre 2019), cittadino delle isole Kiribati nel Pacifico, al fine di vedersi riconoscere il diritto di asilo politico in Nuova Zelanda, a causa del pericolo per la sopravvivenza, sua e della sua famiglia, causata dai cambiamenti climatici che, causando un innalzamento del livello del mare nell’area del Pacifico, avevano posto a rischio di sommersione l’isola, nella quale il ricorrente abitava con i suoi congiunti.
Uno dei passaggi rilevanti di questo caso è rappresentato dall’estrema instabilità ed incertezza delle condizioni di vita del ricorrente, il quale nel proprio ricorso ha proposto un paragone tra la sua condizione e quella del migrante in fuga dalla guerra. Paragone a dir poco calzante, posto che l’aumento del livello del mare aveva eroso l’area abitabile dell’isola, causato un aumento della densità di popolazione per chilometro quadrato, con conseguente scarsità delle risorse naturali (in primis, dell’acqua dolce, a causa dell’infiltrazione di acqua salata nelle falde, e dei terreni coltivabili) e creato quindi tensioni sociali prima inesistenti.
Il Comitato ONU, all’esito dell’esaurimento dei ricorsi interni al diritto neozelandese (stato nel quale il ricorrente aveva chiesto asilo), pur rigettando la domanda a causa della mancata dimostrazione, da parte di Ioane, dell’effettivo ed imminente pericolo di sommersione dell’isola dalla quale egli proveniva, ha affermato il principio per cui “gli Stati hanno l’obbligo di assicurare e garantire il diritto alla vita delle persone, e che tale diritto si estende anche alle minacce ragionevolmente prevedibili e alle situazioni potenzialmente letali che possono comportare la perdita della vita o comunque un sostanziale peggioramento delle condizioni dell’esistenza, inclusi il degrado ambientale, i cambiamenti climatici e lo sviluppo insostenibile, che costituiscono alcune delle minacce più gravi ed urgenti alla vita delle generazioni presenti e future (cfr. punto 9.4 della decisione) e che possono influire negativamente sul benessere di un individuo e causare, pertanto, una violazione del suo diritto alla vita (cfr. punto 9.5)”.
Nel 2019, a seguito della pronuncia ONU, è stato proposto un ricorso davanti al Tribunale di Ancona da parte di un rifugiato proveniente dalla zona del delta del Niger, che come noto è caratterizzata da una grave situazione di dissesto ambientale, dovuta sia allo sfruttamento indiscriminato dell’area da parte delle compagnie petrolifere (questo forse il lato meno noto) sia ai conflitti etnico-politici che l’hanno interessata a partire dagli anni ’90.
La Corte di Cassazione, investita dell’impugnazione del decreto di rigetto, con la sentenza n. 5022 del 24 febbraio 2021 ha affermato, contrariamente alla corte territoriale, la sussistenza delle condizioni per il riconoscimento della protezione sussidiaria ai sensi del D. Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. c), sulla base della considerazione che il livello di violenza generalizzata fosse tale da integrare una situazione equivalente ad un conflitto armato, in quanto «il nucleo ineliminabile costitutivo dello statuto della dignità personale include non solo l’esistenza di una situazione di conflitto armato, ma anche altre situazioni idonee ad esporre i diritti fondamentali alla vita, alla libertà e all’autodeterminazione dell’individuo al rischio di azzeramento o riduzione al di sotto della soglia minima, compresi i casi del disastro ambientale, definito dall’articolo 452-quater del Codice penale, del cambiamento climatico e dell’insostenibile sfruttamento delle risorse naturali. La sentenza inoltre cita proprio il caso di Teitiota come fondamento del giudizio».
La guerra, in generale il conflitto armato, rappresentano solo la più eclatante manifestazione dell’azione autodistruttiva dell’uomo, ma non esauriscono l’ambito dei comportamenti idonei a compromettere le condizioni di vita dignitosa dell’individuo. La dignità umana, dunque, è compromessa in ogni ipotesi in cui il contesto socio-ambientale sia talmente degradato da esporre l’individuo al rischio di veder azzerati i suoi diritti fondamentali alla vita, alla libertà e all’autodeterminazione, o comunque di vederli ridotti al di sotto della soglia del loro nucleo essenziale e ineludibile.
Questa decisione offre sicuramente un po’ di conforto a tutti i giuristi che si sono occupati di riconoscimento delle problematiche ambientali e climatiche nel diritto dell’immigrazione e pone sicuramente un precedente rilevante che ci si augura venga maggiormente disciplinato in futuro.
Dott.ssa Tiziana Bandini
Sede Milano
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