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Art. 256 D.lgs 152/06: reato proprio o comune?

La pronuncia in esame (Corte di Cassazione, Sez. III –n. 4770)
 consente di riflettere su un tema particolarmente dibattuto e attinente alla natura di reato proprio o comune dell’ipotesi contravvenzionale di cui all’art. 256, comma 1, del d.lgs. 152 del 2006.

Nel caso di specie, avverso la sentenza di condanna con la quale l’imputato era stato ritenuto responsabile del reato in esame, la difesa ricorreva avanti alla Suprema Corte deducendo, come unico motivo di impugnazione, la violazione di legge e il vizio di motivazione della decisione poiché secondo le argomentazioni della difesa la condotta era stata erroneamente qualificata come reato, piuttosto che come illecito amministrativo ai sensi dell’art. 255 d.lgs. 152/2006.
Segnatamente, secondo la tesi difensiva infatti l’art. 256 d.lgs. 152/2006 costituirebbe un reato proprio, configurabile soltanto nei confronti di un soggetto che rivesta qualifica di imprenditore e che svolga un’attività di gestione di rifiuti, essendo irrilevanti le condotte meramente occasionali, di contro quindi il soggetto privato che, con condotta occasionale, abbandoni in modo incontrollato un proprio rifiuto risponde solo dell’illecito amministrativo di cui all’art. 255 d.lgs. 152/2006.

Il principio della Suprema Corte

La Suprema Corte, nel rigettare le argomentazioni difensive, ha rilevato che, diversamente da quanto sostenuto, il reato di attività di gestione di rifiuti in assenza di autorizzazione previsto dall’art. 256, comma 1, d.lgs. n. 152 del 2006 non ha natura di reato proprio integrabile soltanto da soggetti esercenti professionalmente una attività di gestione di rifiuti, ma costituisce un’ipotesi di reato comune che può essere pertanto commesso anche da chi svolge attività di gestione dei rifiuti in modo secondario o consequenziale all’esercizio di una attività primaria diversa. Risulterebbe del tutto arbitrario, dunque, introdurre surrettizie limitazioni interpretative fondate sui requisiti, non espressamente richiesti, di imprenditorialità e/o di professionalità.
Tuttavia, specifica la Corte, pur trattandosi di reato avente natura istantanea, occorrerà che l’attività di gestione di rifiuti posta in essere non abbia carattere assolutamente occasionale essendo necessaria, dunque, una “minimale organizzazione” che escluda la natura estemporanea della condotta, identificabile attraverso diversi “indici” quali il dato ponderale dei rifiuti oggetto di gestione, la loro natura, la necessità di un veicolo funzionale all’attività concretamente svolta, nonchè il numero dei soggetti coinvolti nell’attività stessa.
Non pare quindi irragionevole in conclusione sostenere che il Legislatore nel descrivere attività che presuppongono la predisposizione, sia pur minimale, di un’organizzazione imprenditoriale e nel richiamare la disciplina di cui agli artt. 208 e ss. T.U.A., abbia inteso circoscrivere il novero dei soggetti attivi soltanto a coloro che, in quanto esercenti attività organizzata di gestione dei rifiuti assoggettata a determinati regimi autorizzativi, siano in grado di arrecare una particolare forma di offesa, non realizzabile, diversamente, da parte di “chiunque”. Ciò, dunque, conferirebbe all’ipotesi di cui all’art. 256, comma 1, T.U.A. la natura di reato proprio o, quantomeno, se si volesse prescindere dalla qualifica del soggetto attivo, porterebbe a ritenere l’imprenditorialità un requisito essenziale ai fini del perfezionamento dell’offesa descritta dalla fattispecie incriminatrice. Pertanto, nella pronuncia in esame, la Corte, pur ribadendo la natura di reato comune dell’art. 256, comma 1, T.U.A., giunge a conclusioni tutto sommato condivisibili laddove sceglie di adottare una soluzione esegetica che subordina la configurabilità di tale ipotesi criminosa alla sussistenza di una forma organizzata e non occasionale dell’attività di gestione di rifiuti.

Dott. Flavio Contursi

Sede Roma

flavio.contursi@safegreen.it