La sentenza in commento analizza l’istituto della confisca per equivalente ed in particolare il rapporto che intercorre tra le due sotto-tipologie di questo specifico istituto, ovvero la confisca che colpisce i beni del soggetto che si è direttamente avvantaggiato del profitto del reato, e quella invece dotata di carattere sanzionatorio che colpisce i beni o il denaro dell’autore del reato, qualora quest’ultimo non coincida con il soggetto che si è avvantaggiato del profitto del reato stesso. In particolare, con ordinanza del 18 dicembre 2019, il Tribunale di Palermo ha accolto la richiesta di riesame presentata dall’indagata, quale componente del consiglio di amministrazione, nei confronti del decreto del Gip emesso in ordine al reato di traffico illecito di rifiuti, con cui erano stati disposti il sequestro preventivo della società e il sequestro per equivalente fino al valore del profitto percepito dalla società predetta, ed in subordine, il sequestro per equivalente nei confronti dell’indagata.
Il Tribunale ha ritenuto fondata la richiesta di riesame, sul rilievo che la confisca per equivalente nei confronti dell’indagata non avrebbe potuto essere disposta, perché prevista da una norma entrata in vigore dopo la consumazione del reato, da ritenersi dunque irretroattiva dato il suo carattere sanzionatorio.
Avverso tale ordinanza ha proposto, ricorso per Cassazione, il Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Palermo.
La Corte ha ritenuto il ricorso infondato, perché basato su erroneo presupposto interpretativo. Infatti prendendo come parametro la precedente giurisprudenza delle Sezioni Unite si è affermato che il presupposto logico è che la confiscabilità del denaro senza prova della pertinenzialità rispetto al reato è consentita solo nei confronti del soggetto che abbia visto le proprie disponibilità monetarie implementarsi di quelle somme direttamente provenienti dal reato e non già di altri, che non abbiano beneficiato dell’arricchimento. Dunque, in relazione a reati commessi nell’interesse di un’impresa dal suo legale rappresentante, il sequestro e la confisca diretta possono colpire le somme nella disponibilità dell’ente beneficiario dell’arricchimento e non già quelle in possesso del legale rappresentante, ancorché sia stato quest’ultimo a rendersi autore del reato. Logico corollario di questa prima affermazione è che, laddove l’amministratore di una società abbia percepito legittimamente dei compensi a cagione della carica rivestita, tale somma non potrà essere ritenuta profitto del reato, salvo che non si provi che, a dispetto della situazione che formalmente si appalesa, vi sia un’osmosi economica tra persona giuridica e persona fisica che la rappresenta, come quando la società sia un mero schermo formale privo di una propria consistenza, grazie alla quale la persona fisica agisca come effettivo titolare dei beni della medesima ed abbia incamerato direttamente le somme percepite dall’impresa.
Tale situazione “patologica” strutturale dei rapporti tra impresa e chi la rappresenta naturalmente deve essere oggetto di specifica prospettazione e dimostrazione da parte di chi invoca il sequestro e la confisca e di una correlata giustificazione nel provvedimento impositivo del vincolo, al pari di ogni altra situazione, eventualmente meno eclatante, più circoscritta e occasionale, in cui sia avvenuto una tantum il transito ingiustificato delle somme-profitto dalla persona giuridica beneficiata alla persona fisica il cui patrimonio si intenda aggredire.
Dott. Flavio Contursi
Sede Roma
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